Satira VI

A Messer Pietro Bembo

Bembo, io vorrei, come è il commun disio
de’ solliciti padri, veder l’arti
che essaltan l’uom, tutte in Virginio mio;
e perché di esse in te le miglior parti
veggio, e le più, di questo alcuna cura
per l’amicizia nostra vorrei darti.
Non creder però ch’esca di misura
la mia domanda, ch’io voglia tu facci
l’ufficio di Demetrio o di Musura
(non si dànno a’ par tuoi simili impacci),
ma sol che pensi e che discorri teco,
e saper dagli amici anco procacci
s’in Padova o in Vinegia è alcun buon greco,
buono in scienzia e più in costumi, il quale
voglia insegnarli, e in casa tener seco.
Dottrina abbia e bontà, ma principale
sia la bontà: che, non vi essendo questa,
né molto quella alla mia estima vale.
So ben che la dottrina fia più presta
a lasciarsi trovar che la bontade:
sì mal l’una ne l’altra oggi s’inesta.
O nostra male aventurosa etade,
che le virtudi che non abbian misti
vici nefandi si ritrovin rade!
Senza quel vizio son pochi umanisti
che fe’ a Dio forza, non che persuase,
di far Gomorra e i suoi vicini tristi:
mandò fuoco da ciel, ch’uomini e case
tutto consumpse; et ebbe tempo a pena
Lot a fugir, ma la moglier rimase.
Ride il volgo, se sente un ch’abbia vena
di poesia, e poi dice: — È gran periglio
a dormir seco e volgierli la schiena. —
Et oltra questa nota, il peccadiglio
di Spagna gli dànno anco, che non creda
in unità del Spirto il Padre e il Figlio.
Non che contempli come l’un proceda
da l’altro o nasca, e come il debol senso
ch’uno e tre possano essere conceda;
ma gli par che non dando il suo consenso
a quel che approvan gli altri, mostri ingegno
da penetrar più su che ‘l cielo immenso.
Se Nicoletto o fra Martin fan segno
d’infedele o d’eretico, ne accuso
il saper troppo, e men con lor mi sdegno:
perché, salendo lo intelletto in suso
per veder Dio, non de’ parerci strano
se talor cade giù cieco e confuso.
Ma tu, del qual lo studio è tutto umano
e son li tuoi suggetti i boschi e i colli,
il mormorar d’un rio che righi il piano,
cantar antiqui gesti e render molli
con prieghi animi duri, e far sovente
di false lode i principi satolli,
dimmi, che truovi tu che sì la mente
ti debbia aviluppar, sì tòrre il senno,
che tu non creda come l’altra gente?
Il nome che di apostolo ti denno
o d’alcun minor santo i padri, quando
cristiano d’acqua, e non d’altro ti fenno,
in Cosmico, in Pomponio vai mutando;
altri Pietro in Pierio, altri Giovanni
in Iano o in Iovian va riconciando;
quasi che ‘l nome i buon giudici inganni,
e che quel meglio t’abbia a far poeta
che non farà lo studio de molti anni.
Esser tali dovean quelli che vieta
che sian ne la republica Platone,
da lui con sì santi ordini discreta;
ma non fu tal già Febo, né Anfione,
né gli altri che trovaro i primi versi,
che col buon stile, e più con l’opre buone,
persuasero agli uomini a doversi
ridurre insieme, e abandonar le giande
che per le selve li traean dispersi;
e fér che i più robusti, la cui grande
forza era usata alli minori tòrre
or mogli, or gregge et or miglior vivande,
si lasciaro alle leggi sottoporre,
e cominciar, versando aratri e glebe,
del sudor lor più giusti frutti accòrre.
Indi i scrittor féro all’indotta plebe
creder ch’al suon de le soavi cetre
l’un Troia e l’altro edificasse Tebe;
e avesson fatto scendere le petre
dagli alti monti, et Orfeo tratto al canto
tigri e leon da le spelonche tetre.
Non è, s’io mi coruccio e grido alquanto
più con la nostra che con l’altre scole,
ch’in tutte l’altre io non veggia altretanto,
d’altra correzion che di parole
degne; né del fallir de’ suoi scolari,
non pur Quintillano è che si duole.
Ma se degli altri io vuo’ scoprir gli altari,
tu dirai che rubato e del Pistoia
e di Petro Aretino abbia gli armari.
Degli altri studi onor e biasmo, noia
mi dà e piacer, ma non come s’io sento
che viva il pregio de’ poeti e moia.
Altrimenti mi dolgo e mi lamento
di sentir riputar senza cervello
il biondo Aonio e più leggier che ‘l vento,
che se del dottoraccio suo fratello
odo il medesmo, al quale un altro pazzo
donò l’onor del manto e del capello.
Più mi duol ch’in vecchiezza voglia il guazzo
Placidian, che gioven dar soleva,
e che di cavallier torni ragazzo,
che di sentir che simil fango aggreva
il mio vicino Andronico, e vi giace
già settant’anni, e ancor non se ne lieva.
Se mi è detto che Pandaro è rapace,
Curio goloso, Pontico idolatro,
Flavio biastemator, via più mi spiace
che se per poco prezzo odo Cusatro
dar le sentenzie false, o che col tòsco
mastro Battista mescole il veratro;
o che quel mastro in teologia ch’al tósco
mesce il parlar fachin, si tien la scroffa,
e già n’ha dui bastardi ch’io conosco;
né per saziar la gola sua gaglioffa
perdona a spesa, e lascia che di fame
langue la madre e va mendica e goffa;
poi lo sento gridar, che par che chiame
le guardie, ch’io digiuni e ch’io sia casto,
e che quanto me stesso il prossimo ame.
Ma gli error di questi altri così il basto
di miei pensier non gravano, che molto
lasci il dormir o perder voglia un pasto.
Ma per tornar là donde io mi son tolto,
vorrei che a mio figliuolo un precettore
trovassi meno in questi vizii involto,
che ne la propria lingua de l’autore
gli insegnasse d’intender ciò che Ulisse
sofferse a Troia e poi nel lungo errore,
ciò che Apollonio e Euripide già scrisse,
Sofocle, e quel che da le morse fronde
par che poeta in Ascra divenisse,
e quel che Galatea chiamò da l’onde,
Pindaro, e gli altri a cui le Muse argive
donar sì dolci lingue e sì faconde.
Già per me sa ciò che Virgilio scrive,
Terenzio, Ovidio, Orazio, e le plautine
scene ha vedute, guaste e a pena vive.
Omai può senza me per le latine
vestigie andar a Delfi, e de la strada
che monta in Elicon vedere il fine;
ma perché meglio e più sicur vi vada,
desidero ch’egli abbia buone scorte,
che sien de la medesima contrada.
Non vuol la mia pigrizia o la mia sorte
che del tempio di Apollo io gli apra in Delo,
come gli fei nel Palatin, le porte.
Ahi lasso! quando ebbi al pegàseo melo
l’età disposta, che le fresche guancie
non si vedeano ancor fiorir d’un pelo,
mio padre mi cacciò con spiedi e lancie,
non che con sproni, a volger testi e chiose,
e me occupò cinque anni in quelle ciancie.
Ma poi che vide poco fruttuose
l’opere, e il tempo invan gittarsi, dopo
molto contrasto in libertà mi pose.
Passar venti anni io mi truovavo, et uopo
aver di pedagogo: che a fatica
inteso avrei quel che tradusse Esopo.
Fortuna molto mi fu allora amica
che mi offerse Gregorio da Spoleti,
che ragion vuol ch’io sempre benedica.
Tenea d’ambe le lingue i bei secreti,
e potea giudicar se meglior tuba
ebbe il figliuol di Venere o di Teti.
Ma allora non curai saper di Ecuba
la rabbiosa ira, e come Ulisse a Reso
la vita a un tempo e li cavalli ruba;
ch’io volea intender prima in che avea offeso
Enea Giunon, che ‘l bel regno da lei
gli dovesse d’Esperia esser conteso;
che ‘l saper ne la lingua de li Achei
non mi reputo onor, s’io non intendo
prima il parlar de li latini miei.
Mentre l’uno acquistando, e diferrendo
vo l’altro, l’Occasion fuggì sdegnata,
poi che mi porge il crine, et io nol prendo.
Mi fu Gregorio da la sfortunata
Duchessa tolto, e dato a quel figliuolo
a chi avea il zio la signoria levata.
Di che vendetta, ma con suo gran duolo,
vide ella tosto, ahimè!, perché del fallo
quel che peccò non tu punito solo.
Col zio il nipote (e fu poco intervallo)
del regno e de l’aver spogliati in tutto,
prigione andar sotto il dominio gallo.
Gregorio a’ prieghi d’Isabella indutto
fu a seguir il discepolo, là dove
lasciò, morendo, i cari amici in lutto.
Questa iattura e l’altre cose nòve
che in quei tempi successeno, mi féro
scordar Talia et Euterpe e tutte nòve.
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
drieto a Marta bisogna ch’io rivolga,
ch’io muti in squarci et in vacchette Omero;
truovi marito e modo che si tolga
di casa una sorella, e un’altra appresso,
e che l’eredità non se ne dolga;
coi piccioli fratelli, ai quai successo
ero in luogo di padre, far l’uffizio
che debito e pietà avea commesso;
a chi studio, a chi corte, a chi essercizio
altro proporre, e procurar non pieghi
da le virtudi il molle animo al vizio.
Né questo è sol che alli miei studii nieghi
di più avanzarsi, e basti che la barca,
perché non torni a dietro, al lito leghi;
ma si truovò di tanti affanni carca
allor la mente mia, ch’ebbi desire
che la cocca al mio fil fésse la Parca.
Quel, la cui dolce compagnia nutrire
solea i miei studi, e stimulando inanzi
con dolce emulazion solea far ire,
il mio parente, amico, fratello, anzi
l’anima mia, non mezza non, ma intiera,
senza ch’alcuna parte me ne avanzi,
morì, Pandolfo, poco dopo: ah fera
scossa ch’avesti allor, stirpe Ariosta,
di ch’egli un ramo, e forse il più bello, era!
In tanto onor, vivendo, t’avria posta,
ch’altra a quel né in Ferrara né in Bologna,
onde hai l’antiqua origine, s’accosta.
Se la virtù dà onor, come vergogna
il vizio, si potea sperar da lui
tutto l’onor che buono animo agogna.
Alla morte del padre e de li dui
sì cari amici, aggiunge che dal giogo
del Cardinal da Este oppresso fui;
che da la creazione insino al rogo
di Iulio, e poi sette anni anco di Leo,
non mi lasciò fermar molto in un luogo,
e di poeta cavallar mi feo:
vedi se per le balze e per le fosse
io potevo imparar greco o caldeo!
Mi maraviglio che di me non fosse
come di quel filosofo, a chi il sasso
ciò che inanzi sapea dal capo scosse.
Bembo, io ti prego insomma, pria che ‘l passo
chiuso gli sia, che al mio Virginio porga
la tua prudenza guida, che in Parnasso,
ove per tempo ir non seppi io, lo scorga.

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